Il mio lavoro a volte mi fa vivere esperienze che sono più di un incontro professionale, che mi fanno chiudere un cerchio rimasto aperto e mi offrono nuovi spunti per analizzare la mia vita e il mio essere genitore. È stato così con #mammepiusport, il progetto di Kinder + Sport che mi ha portata al CONI, ad ascoltare campioni del passato – Anna Maria Marasi e il mio mito Carlton Myers – e conoscere il progetto di responsabilità sociale di Ferrero, che promuove stili di vita attivi, incoraggiando la pratica dello sport tra le nuove generazioni.
In treno, al ritorno dalla giornata che potete seguire con l’hashtag #mammepiusport, ho riflettuto sul significato dello sport nella mia vita.
Sono lì, sola al cancelletto di partenza. Ripasso mentalmente il percorso, la neve che mi sferza le gambe avvolte in quella tuta che tanto amo. 5, 4, 3, 2, 1 – è il mio momento! “Dai, Cristiana, spingi su ‘sti sci, piega le gambe, anticipa la porta” Il freddo mi fa respirare affannosamente. “Il dosso, poi la porta a destra, dai, che sei la più veloce, forza, non mollare”. Quel silenzio perfetto, nel quale il respiro si amplifica, in cui si sentono le parole che sto sussurrando a me stessa.
Eccolo, laggiù, il traguardo, il momento della verità, quello che mi dirà se sono ancora una volta la più forte o se qualcuno invece oggi ha sciato meglio di me. Mesi di allenamenti, di sveglie all’alba nei weekend, di ski-lift sempre troppo lunghi, di palle di neve davanti al rifugio, di allenamenti in palestra, di chilometri di piste e di tracciati, di pipì tenute sempre troppo a lungo, di strigliate dell’allenatore.
E adesso il traguardo è lì, quello della gara più importante della stagione. E io ho 7 anni e potrei, tra qualche secondo, avere la mia più grande soddisfazione o subire la più bruciante delusione. Ce la metto tutta, fino all’ultimo, e so che più di così non posso fare. E mi sento grande e, finalmente, forte.
Questo è stato lo sport per me, un’altalena di sensazioni, una grandissima fatica, la più significativa esperienza di vita, quello che mi ha insegnato a credere in me stessa, a capire che con la mia volontà sarei potuta arrivare dove il mio fisico non arrivava, a conoscere i miei limiti e spingermi sempre un po’ oltre. Credevo che da grande sarei diventata un’atleta, che avrei vinto gare e scalato classifiche. Poi la piccola sognatrice determinata è cresciuta e ha smesso di desiderare di assomigliare a quella Deborah Compagnoni che non seguiva più così assiduamente. I “no, stasera non posso uscire perché domani ho una gara” erano diventati troppo pesanti. E lo sport si è allontanato da me. In modo lento e irreversibile, gli alibi sono stati più potenti di tutto quel bagaglio ingombrante di esperienze fortificanti.
Se mi guardo indietro oggi ho una sensazione di amaro in bocca, un rimpianto per aver smesso di sognare, per aver gettato la spugna. Il mio corpo è tutt’altro che quello di una sportiva ma sono tra quelli che ancora si emozionano sentendo l’inno di Mameli prima di una partita, che tornano dal Palazzetto senza voce per aver sostenuto la propria squadra del cuore fino alla fine, che non mollano fino all’ultimo canestro anche in una sfida campagnola tra moglie e marito. La grinta dello sport mi è rimasta dentro e mi accompagna in tutte le scelte e le sfide della vita.
Ora non mi resta che innamorarmi di nuovo, anche se ho 33 anni, anche se tutti questi chili in più mi fanno sentire a disagio, e ricominciare a impegnarmi fino a rispostare in avanti quei limiti.
Sarà il modo migliore per capire che ancora ce la posso fare, sarà l’esempio più prezioso anche per le mie figlie.
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